MONDIAL
HOTEL
La
strada stretta proveniente dal centro storico era lastricata da
larghe pietre rossastre, separate le une dalle altre da ampie
fessure.
Era
piovuto, ed ora luccicavano al riflesso dei lampioni, nella sera già
buia. Egli ascoltava il rumore dei suoi passi nel deserto intorno,
pensava che avrebbe potuto trovarsi sul set di un film giallo, né la
vicenda di cui era protagonista se ne scostava molto.
Al
fondo della strada un'insegna al neon, rossa, con la “t”che non
si illuminava più: Mondial Hotel.
Rapidamente
lo raggiunse.
Tre
gradini, una passatoia sporca fermata da asticciole di metallo. A un
lato dell'ingresso un vaso grande, con una specie di palma, forse
finta. Oltre l'angolo dell'edificio si intravedevano i bidoni della
spazzatura. Spinse la porta a vetri, su cui erano ben evidenti le
due stelle della categoria, ed entrò. Aleggiava odore di chiuso, di
vecchi velluti. Il portiere di notte, seduto dietro il bancone, con
un giornale in mano, non alzò subito gli occhi. Quando lo fece, egli
chiese:
“Avete
un stanza libera per una notte?”
“Quante
ne vuole”, rispose l'uomo, che indossava una giacca stropicciata
bordata ai polsi e al collo da una striscia rossa. “Come la vuole?
Verso il giardino?”
“Non
importa. Una stanza”.
“Bene,
favorisca i documenti”.
Allungandoli,
volse lo sguardo alla scala, sulla destra: una stinta passatoia la
ricopriva, resa più sgradevole dalla cattiva illuminazione.
“Secondo
piano, la 23”, disse il portiere.
Salì.
Il luogo, l'ora, l'immenso problema che lo attanagliava: salì
lentamente, ricurvo. Percorso il corridoio, dove l'odore di chiuso
era opprimente, entrò nella stanza. Buttò il poco bagaglio sul
letto, spalancò la finestra . Gli aveva dato una camera sul retro;
ebbe davanti a sé una fitta, compatta parete di ligustro, su cui,
come su uno schermo, strisciavano le luci dei fari delle automobili,
che a sinistra percorrevano la strada principale. Stette così per un
po': l'aria, ripulita dalla pioggia del pomeriggio, aveva un fresco
sentore.
Sicuro,
sapeva che sarebbe successo. Tre giorni prima era scaduto il termine
entro cui doveva restituire la somma stabilita.
“O
lei mi dà quel che mi deve con gli interessi fino all'ultimo
centesimo”, aveva detto l'usuraio, “o qui si mette male. Vuole un
altro prestito? Glielo posso dare. Ma l'interesse è doppio, e il
termine un mese...”
Erano
nell'ufficio di copertura di quell'uomo, un bell'ufficio: legno e
pelle, quadri alle pareti, foto incorniciate d'argento sulla
scrivania. “Un mese”, ripeté.”Se no”, aveva continuato
alzando gli occhi dalla matita che faceva roteare tra le dita, “lei
capisce che devo agire...Capisce?”
Capiva.
E intanto guardava l'anello di lui al dito mignolo, il pullover di
cashmere, il viso fresco ben rasato.
E
vedeva il suo sguardo: arrogante,minaccioso.
Poiché
non rispondeva, l'usuraio concluse: “Bene, le do ancora tre giorni.
Poi mi dovrà dire cosa ha deciso. E io non scherzo”.
Ora,
seduto sul bordo del letto dello squallido albergo, riandava alle
ultime ventiquattr'ore. Il giorno prima, annaspando nello sgomento,
aveva pensato a tutte le possibili soluzioni. A chi rivolgersi per
trovare il denaro dovuto? Nell'ormai lungo percorso della sua
dipendenza dall'usuraio aveva bruciato tutte le strade: nessuno gli
faceva più credito, si era procurato debiti per chiuderne altri,
aveva venduto il vendibile, ed ora lui e la sua famiglia vivevano di
economie incredibili. Come aveva potuto ridursi così? Riandava ai
tempi in cui la sua piccola azienda era fiorente, ed egli si sentiva
un uomo capace, in gamba. Forse troppo, forse si era sovrastimato: e
aveva fatto passi azzardati, rischiato in ampliamenti che,
subentrando la crisi, si erano rivelati nefasti. Così era cominciata
la discesa, e un gradino aveva tirato l'altro, fino al ricorso agli
usurai, fino al disastro.
Oggi
era venuto in questa città confidando in una vecchia zia, che
secondo lui avrebbe potuto aiutarlo. Aveva passato con lei la
giornata, riempiendola di attenzioni, raccontandole dei suoi figli,
di sua moglie: in tutti i modi aveva cercato di coinvolgerla in una
partecipazione affettiva. Ma gli era apparsa svanita. In più, la
donna che viveva con lei gli aveva fatto capire che non aveva grandi
risparmi, che era fondamentale l' “accompagnamento”.
Perciò,
caduta anche quell'ultima speranza, ora non sapeva più cosa fare.
Quasi
meccanicamente trasse dalla valigetta l'oggetto, lo posò sul
comodino. Aveva un regolare porto d'armi per la pistola, di cui si
era munito quando aveva cominciato ad avvalersi degli usurai. Tenne
la mano su di essa: che frescura nel palmo! Un ristoro!
Un
vortice, un buco come un vortice. Gola asciutta. Tachicardia. Più
niente da fare, non c'era più niente da fare...Morire, meglio
morire...oppure... oppure...
L'usuraio
si poteva denunciare.
A
ciò non aveva mai concretamente pensato, conscio delle crudeli
ritorsioni cui sarebbe andato incontro, e la famiglia pure. Ora
rifletteva: morto suicida, sarebbe finito sui giornali. Il suo
fallimento, come imprenditore e come uomo, fissato per sempre, e
irreversibile. I figli e la moglie non avrebbero conservato di lui
un'orgogliosa memoria.
E
se avesse denunciato l'usuraio certo tutti lo avrebbero considerato
coraggioso, ma non si sarebbero trovati al posto suo a temere
imboscate, violenze , danneggiamenti d'ogni tipo. Certo le forze
dell'ordine lo avrebbero aiutato e protetto, ma egli ben sapeva
quanto astute e sottili fossero le vie del male! Per non parlare
della fatica e dei nuovi sacrifici necessari a rimettere in piedi una
qualsivoglia attività, così senza soldi, con due figli appena
adolescenti : ancora un calvario.
No,
meglio farla finita. Sua moglie era una vera donna: le donne sono
più forti, si disse,ce l'avrebbe fatta.
E
se invece di morire da fallito avesse tentato un riscatto? Perché
non provarci?
Ora,
disteso sul letto, preda di una stanchezza mortale, si dibatteva tra
l'una e l'altra risoluzione. Mentre lo sfinimento lo portava al
sonno, egli sentì che solo vivendo un nuovo calvario avrebbe potuto
sapere se fosse possibile per lui una resurrezione.
Un
tintinnio di collane aprì la porta d'ingresso dell'hotel.
Bisticciando con il trolley, sbuffando, entrò su stivali vertiginosi
una giovane bionda: attillata, profumata, elegante. Il portiere la
guardò senza scomporsi mentre avanzava quasi gridando: “ Mammamia
che fatica! Avete una stanza libera per una notte?”
“Come
la vuole? Singola?”, disse dubitoso.
“ Non
importa. Una stanza”.
“ La
27”, e si avviò ad indicarle l'ascensore.
“Oh,
salgo a piedi, mi basta appoggiare la valigia!”
Il
portiere la guardò salire: fosse chi fosse, a lui importava solo non
avere guai.
La
camera 27 aveva la serratura difettosa, era soffocante e con un bagno
malandato. La giovane mormorò qualcosa, spinse da una parte il
trolley, spalancò la finestra: sulla strada sottostante le
automobili andavano via via diradandosi. Respirò profondamente la
fresca aria notturna, ripetutamente. Poi si volse allo specchio, si
passò le dita sotto gli occhi stanchi, osservò l'ombra scura sulla
guancia, si buttò sul letto.
Così
era fuggita. Solo qualche mese prima non avrebbe mai pensato di fare
una cosa simile. Ora sentiva ancora il dolore alla spalla procuratole
dalla caduta a terra, quando lo schiaffo era stato tanto violento da
farle perdere l'equilibrio.
Distesa
sopra le coperte, riandava ai ricordi.
Anni
prima, nella tabaccheria in paese, venivano in tanti, giovani e
vecchi. Parlavano con suo padre,e guardavano lei: snella, bionda,
sempre a ridere su quelle gambe lunghe. Suo padre, vedovo, l'aveva
viziata, pur non essendo ricco. E quando un giorno un giovanotto di
bell'aspetto si era stagliato sulla porta, con l'aria sicura del
vincitore, le era sembrato il principe arrivato a cavallo . I ragazzi
le erano sempre piaciuti, anzi in paese aveva fama di averne avuto
qualcuno di troppo, ma lui non ci aveva fatto caso e se l'era
sposata.
Erano
andati a vivere nella città dove egli aveva un'impresa. Avviata, con
parecchi dipendenti. Viaggiava spesso, ma non la faceva mai sentire
sola: tornava con regali, la colmava di attenzioni, non dimenticava
una ricorrenza. Avevano una villa con piscina e un bel parco.
Insomma tutto quello che sempre aveva sognato, dietro il banco della
tabaccheria, lo aveva avuto. Era felice.
Poi
un giorno egli tornò a casa cupo, e fu così per giorni. Alle sue
domande rispondeva evasivamente, finché una sera, sedendole accanto
sul divano, le disse:
“Sai,
gli affari non vanno più tanto bene”.
“ Cosa?”
“Non
reggo la concorrenza come prima, lo stabilimento nuovo è costato
troppo, le tasse mi ammazzano”, e le elencò una serie di problemi
incomprensibili.
“Stiamo
diventando poveri?”, chiese lei con aria sgomenta.
“No,
non per ora. Ma...occorre premunirsi, avere qualche sponda...”
Lei
non capì, continuava a guardarlo interrogativa.
“Avrei
bisogno che qualcuno mi aiutasse”.
“Ma
certo, certo! Potrei fare qualcosa anch'io, la modella per esempio!
Ricordi che conosco quella stilista, e anche quel pubblicitario...”
“Ma
no, vedi , mi serve qualcuno che mi dia denaro, capisci? Anzi,
l'avrei anche trovato...”
“Ma
bene allora! Chi è?”
Le
si avvicinò, l'avvolse più intimamente e con voce bassa e suadente
continuò:
“Ricordi
quel signore non più giovane che conoscemmo in Sardegna l'anno
scorso? Che ci offrì una cena e poi incontrammo a carnevale...Ma sì,
quell'uomo elegante, con un' automobile che tanto ti piacque...”
“ Sì,
mi pare...Quello brutto?”
“ Ma
no, non brutto, solo un po' maturo. Siamo diventati amici, si è
interessato ai miei problemi, e sarebbe disposto ad aiutarmi”.
“Ma
allora siamo a posto, non devi preoccuparti più!”
“No...certo.
Però lui mi aiuterebbe se ...se tu...”, e la strinse più forte,
“se tu fossi carina con lui”.
Subito
non capì. Egli riprese:
“Sto
dicendo che se vuoi continuare a vivere come viviamo, se vuoi gli
abiti firmati e le vacanze di lusso, se vuoi che tuo marito, io, tuo
marito, non sia trascinato al fallimento e finisca alla gogna, e
magari anche inquisito per operazioni illegali, beh, tu devi...”
Si
era staccato da lei, la sua voce era divenuta tagliente,
l'espressione crudele.
Aveva
accettato. Per amore di lui. E della vita che non voleva perdere.
Allora
si era aperto un capitolo della sua esistenza fatto di lusso e
corruzione, in cui era vittima consenziente. Del marito aveva
conosciuto un altro volto: tanto grande era il suo amore che c'era
posto per altre, c'era sempre stato. E più affondava, più si
sentiva bisognosa di appoggiarsi a chi la mandava a fondo.
Ad
un movimento del fianco, sul letto, avvertì una presenza, una
impalpabile presenza nel grembo: come una sommessa voce che voleva
intervenire nella rassegna dei ricordi. Non diceva: “Tienimi”,
non invocava. Era lì e basta, in attesa della sua sorte.
Quando
il marito aveva saputo che era incinta di lui o dell'altro, che aveva
tralasciato per qualche tempo di prendere la pillola, le aveva detto
che doveva liberarsi del frutto di quella stupida negligenza. E che
lo facesse da sola, bastava andare all'ospedale, era grande
abbastanza. Ma quando lei aveva avuto un moto di protesta, pensandosi
sola in quella circostanza, egli l'aveva inteso come un rifiuto ad
abortire e, con un ceffone terribile, l'aveva fatta cadere. Allora
qualcosa le era scattato dentro. Approfittando di una sua assenza,
aveva raccolto quattro indumenti, preso il denaro che aveva in casa
ed era scappata. In un'altra città, poco lontana, ma dove nessuno
avrebbe pensato di cercarla.
Certo
che avrebbe abortito, mica poteva farcela da sola. Quali altre
possibilità aveva? Il denaro lasciatole dal padre non era molto, non
possedeva titoli di studio oltre l'obbligo, e comunque avrebbe dovuto
trovare una casa, un lavoro. Suo marito l'avrebbe cercata? Ma
conosceva altre ragazze disponibili...
Si
stupiva di se stessa: da dove le veniva tanta determinazione a non
volere più vivere come aveva fatto fino ad allora? Poteva fare la
commessa, essere assunta in un call center, o qualcosa del genere.
Oppure, meglio, la modella, suo vecchio sogno, o cercare in
televisione, le conoscenze non le mancavano. La sua mente era un
caleidoscopio di possibilità, di ipotesi cotraddittorie.
Seduta
sul letto, vide il suo futuro con un bambino. E quale futuro, poi? La
gente ci mette poco a capire, dovunque ci si trovi, e non fa sconti:
anche se i tempi erano cambiati, l'ipocrisia sarebbe stata sempre la
stessa. No, no, doveva abortire. Si sarebbe separata, poi avrebbe
divorziato. E cominciato una nuova vita. Libera. Padrona delle sue
azioni. Una nuova vita!
Sentì
di nuovo quel fastidio in grembo. “Suggestioni”, si disse: era
troppo presto per percepirlo, era in tempo per liberarsene.
Si
spogliò, si infilò sotto le coperte. Era esausta. Ebbe paura:
poteva essere certa che la nuova vita sarebbe stata come la sognava?
Aveva sperimentato la delusione dopo l'illusione...e come! Non sapeva
più che fare: ogni scelta comportava un'assunzione di
responsabilità, cui non era abituata. Si sentiva sola, ed era
terribile. E mentre il sonno finalmente la portava via, le parve
udire levarsi dal proprio corpo una vocina, sottile, che le diceva di
non disperare, che, insieme, sarebbero anche potuti risorgere...
Il
mattino arrivò, e il portiere di notte del Mondial Hotel cedette il
posto all'impiegata che gli subentrava.
Uscì,
girò l'angolo dell'edificio, prese la bicicletta che lasciava un po'
nascosta sul retro. Era stanco, più che altro stufo. Ora sarebbe
andato a casa, avrebbe mangiato qualcosa e poi dormito. Quindi si
sarebbe fiondato al computer, a giocare. Infine qualche spesa, poi
una cena, e di nuovo all'hotel, ad accogliere le scarse persone che
arrivavano, di cui non gli importava niente.
Sì,
perché lui detestava il prossimo, qualsiasi prossimo. Di
modestissima famiglia, figlio unico , aveva visto il padre andarsene
per i fatti suoi quando era bambino, e la madre incupirsi e
invecchiare anzitempo facendo la domestica a ore. Aveva un carattere
chiuso, a scuola era andato malissimo. Era stato sfortunato in tutto:
insomma si poteva dire nato sotto una cattiva stella.
Dopo
vari lavori da tempo aveva trovato questo, di portiere di notte, che
gli consentiva una discreta sopravvivenza e non lo metteva nella
necessità di rapportarsi con qualcuno oltre poche parole. Pensava
infatti che esistesse un mondo con il quale non aveva niente in
comune: quello delle persone abbienti, colte, capaci di vivere. E poi
lui: un altro mondo. Per usare una parola del suo
linguaggio:“sfigato”. Perciò detestava il prossimo.
Mentre
montava in bicicletta, al marciapiede prospiciente l'hotel, lo
sguardo gli andò in alto: la luna, bianca nel cielo chiaro del
mattino, lo guardava. Era piena, trasparente, ed immensa. Ancora
luminosa nonostante fosse sorto il sole, gareggiava con il cielo
sereno, ripulito dalla pioggia del giorno prima. L'aria appena
frizzante portava un nuovo profumo, di primavera. Si ricordò della
data, e che era la settimana di Pasqua.
Colpito
dalla visione, si rese conto che non guardava mai la luna, chiuso in
quel buco dove lavorava. Caspita, com'era bella, anche così, di
giorno! E sarebbe stato, a quanto pareva, un giorno di sole. Non ebbe
più voglia di andare a casa. Perché non fare un giro sul lungolago?
Così
fece, mosso da uno stato d'animo mai provato, desideroso di nuovi
respiri, di luce, di verde, d'azzurro.
Rapidamente
arrivò al lago. Non c'era che poca gente: qualche coppia anziana,
usa alla passeggiata mattutina, qualche mamma con bambino, un signore
con dei cani, due studenti innamorati che probabilmente avevano
marinato la scuola per stare insieme.
Pedalò
lentamente, guardando la grande montagna che tutto cingeva
abbracciandolo. Guardò il lago e i suoi cigni, e la gente ,e le
piante, e il cielo di nuovo. La natura era lì, e non faceva
differenza se lui era uno “sfigato”: il suo respiro non era
diverso da quello di un altro, né era per lui meno azzurro il cielo,
meno bianca la montagna. Appoggiò la bicicletta ad un albero. Si
sedette su una panchina vuota appoggiando le braccia aperte sullo
schienale: la grande catena di fronte a lui, con il massiccio in
mezzo e le cime innevate ai lati, gli era speculare.
Stette
a lungo così, mentre il sole saliva, abbandonandosi al piacere di
sentire sul suo corpo un calore carezzevole, ascoltando ad occhi
chiusi l'alternarsi delle voci intorno. Quanto buio nella sua vita di
lavoro, e quanto dentro di lui: le notti all'hotel gli erano entrate
nell'anima, lo stavano spegnendo a poco a poco.
Quando
riprese la bicicletta per tornare, era giorno pieno: sentì, con una
nuova speranza, che anche nella sua vita avrebbe potuto esserci una
resurrezione.
Giovanna
de Luca
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