L'
INCONTRO
Era
un dolce autunno, quello che stava passando.
Il
viale, lungo il torrente, era un tappeto di rossi, di gialli, di
marroni...I tronchi quasi bianchi, forti e nodosi, si assottigliavano
nell'intreccio dei rami, via via sempre più spogli. Il cielo chiaro
nella luce del pomeriggio suggeriva un lento abbandono al declino.
Era
uscita perché non sapeva cosa fare, anzi, proprio non aveva voglia
di fare niente. Dunque niente scrittura, niente lettura, niente
attività fisiche o domestiche: niente di niente. Allora si era
infilata il primo trapuntato a portata, data una ravviata, ed era
uscita.
Com'era
bello quel percorso: lo conosceva da decenni e ancora non se ne
stancava: il torrente, trasparente sulle pietre e sui sassi, si
arricciava in schiume brevi e frequenti, alternava voci e gorgoglii.
La lunga fila di alberi lo costeggiava, seguendo un forte muretto, e
molte panchine invitavano alla sosta. Dal punto in cui si trovava, la
fuga degli alberi portava lo sguardo al piazzale lontano, dove si
intuivano automobili e movimento.
Da
un po'di tempo si sentiva strana: l'abitudine a programmare la vita,
a darsi mete da raggiungere, di qualsivoglia natura, sembrava aver
perso forza. Quello che tre, quattro mesi prima l'avrebbe
entusiasmata ora non le interessava più. Così aveva all'ultimo
disdetto la partecipazione a un viaggio, per il quale si era tanto
esaltata, e proprio quel giorno aveva inventato un malanno per non
andare a uno spettacolo teatrale nel capoluogo, dopo aver fatto
tanto per procurarsi il biglietto. Se riceveva un invito trovava una
scusa. Se qualcuno per strada, incontrandola, la tratteneva a
conversare, tagliava corto. Non sopportava, da qualche tempo, nessun
tipo di confusione, odiava il chiasso più di quanto mai le fosse
accaduto.
Amava
ancora, e con più forza, quel percorso: tranquillo ed ampio, lungo
ed arioso, aveva raccolto negli anni tutti i momenti più importanti
della sua vita. Sulla pietra di quel muretto aveva gettato lacrime e
sorrisi, speranze, sogni e delusioni. Lungo quel viale aveva spiato
in lontananza la sagoma di chi aveva atteso per un appuntamento, su
quel selciato aveva seguito il feretro dei suoi, corso per prendere
il treno ad acchiappare la laurea, su quelle panchine aveva letto e
ascoltato la voce del torrente, che in ogni momento, in ogni evento
l'aveva accompagnata.
Era
una voce che non tradiva. Non prometteva per poi non mantenere.
Avvertiva,
negli ultimi anni, i limiti e gli inganni dei rapporti umani. Se
escludeva le persone più vicine, le amicizie storiche, vedeva
intorno a sé un modo di relazionarsi che le pareva cambiato. Non
solo alla sua esperienza si riferiva, ma anche alla società intorno:
pareva che tutti vivessero “in difesa”. Ognuno, pensò sedendosi
su una panchina, chiudeva il proprio recinto su ciò che più gli
stava a cuore: il lavoro, gli affetti, il ruolo sociale...Insomma su
ciò che possedeva: il nuovo, o la persona nuova, era vissuto come
una minaccia alla propria stabilità.
Le
cadde lo sguardo su un formicaio, ai suoi piedi. Lo osservò: quelle
piccolissime creature, meno di niente nella ricchezza dell'universo,
seguivano tenaci il loro percorso. Ad esso le condannava la natura,
senza libertà, senza rimedio. Ed anche quell'acqua che scorrendo
tanto la allietava ubbidiva alla legge naturale; così il temporale
che scoppiava, il fiore che sbocciava, il vento che muoveva le
fronde... Sorrise tra sé per la banalità di tali pensieri. Pure, in
definitiva, anche i comportamenti umani ubbidivano alle leggi di
natura. E difendersi, nel senso più ampio della parola, era un
diritto.
Si
alzò, prese a camminare costeggiando il muretto. Il sole autunnale
scendeva nel cono formato dai crinali di due montagne come cadesse
dentro un imbuto. Si affacciò al torrente. Pensò che stava
diventando come quelle pietre: levigate dal tempo, lasciavano con
indifferenza che l'acqua scorresse su di esse, non mutavano per
l'inquietarsi della corrente, non erano diverse il giorno o la notte.
Raccolse una foglia, la rigirò tra le dita osservandola: era una
foglia bellissima. Grande, aveva il gambo ancora verde e la nervatura
centrale che da esso diramava le dava slancio ed eleganza. Portava in
sé tutti i colori dell'autunno: il marrone sfumava nel giallo, il
rosso le conferiva ancora forza e bellezza. Non pareva una foglia
morta. Tra breve, privata d'ogni linfa e nutrimento, si sarebbe
accartocciata su se stessa, sarebbe stata calpestata, ridotta a
polvere sul selciato: poi, più niente.
Un
rumore improvviso di passi, misto a voci e pianto di bambino, la fece
voltare: dietro di lei giungeva una giovane donna che con una mano
tirava un piccolo mentre con l'altra spingeva il passeggino ed anche
teneva un cane al guinzaglio. Il bambino non voleva procedere e il
cane tirava dalla parte opposta. Era affannata, arrabbiata, certo
stanca.
Arrivata
alla panchina vicina, vi si lasciò cadere, vi fece sedere anche il
bimbo che, incuriosito dalla improvvisa presenza estranea, si era
acquietato. Il cane smise di abbaiare , si accucciò.
La
giovane guardò l'anziana signora, e sorrise.
“Bella
giornata,vero?”, disse .
“Sì”.
“Oggi
sono stanca però”,continuò mentre prendeva il bambino sulle
ginocchia, trafficava nel passeggino, attaccava il guinzaglio alla
panchina. “Mi hanno chiamato in fretta e furia dall'asilo perché
lui”,e accennò al figlio,“è stato male. Sono dovuta correre là,
è la terza volta in un mese, il capo comincia a guardarmi storto, e
devo stare attenta. Già ho rischiato di perdere il posto quando sono
tornata dopo la maternità, avevano dato il mio lavoro a un'altra, io
ci ho rimesso e mi sono dovuta adattare e come potevo fare, con il
bambino i soldi non bastano mai, in più mio marito aveva avuto un
incidente, è rimasto a casa tanto tempo, solo da poco ha ripreso il
lavoro, ma non è più lui, sembra sempre arrabbiato...”.
Parlava
in fretta, confusamente.
“È
un periodaccio. Lui non mi fa dormire, non so cos'abbia il mio
bambino, nemmeno il pediatra capisce. Dice che è sano, che è solo
nervoso, ha voluto sapere se io e mio marito litighiamo davanti a
lui, io gli ho detto no, guardi, certo ci sono tanti problemi: io non
ho più mia madre per aiutarmi e mia suocera deve pensare a suo
marito , l'asilo costa... insomma le solite cose che sento anche
dalle mie amiche”.
Si
interruppe, la guardò:
“Lei
non ha nipotini?”
“No”.
Il
piccolo intanto giocherellava con un pezzetto di legno, ma dopo quel
“no”detto a voce chiara aveva alzato lo sguardo: due occhioni
azzurri pieni di stupore.
“Forse
però”, riprese la giovane, “il pediatra un po' ci ha preso: non
riusciamo più a stare insieme come una volta, io e mio marito. Siamo
sempre preoccupati per qualcosa. A volte mi prende una gran paura: e
se mio figlio avesse qualche malattia strana, di quelle rare? E poi
suo padre, non so, lo sento distante...”
“Sarà
stanco anche suo marito. Si sa che un figlio cambia la vita. E poi
vuole proprio pensare alle malattie rare? I bambini hanno i loro
momenti, se lei si tranquillizza anche lui starà meglio”.
Si
era intanto seduta accanto alla ragazza, che ora taceva e sembrava
inseguire un suo pensiero.
“No”,
aggiunse dopo un po', “No, è che ho paura...ho paura... di essere
di nuovo incinta”.
La
parola rimase lì, sospesa nell'aria. Che dirle? Azzardò: “Beh,
meglio farli subito, i bambini, finché siete giovani, intendo...”.
Capì di aver parlato a vanvera: se un bambino costava molto, due
costavano il doppio, né appariva quello il solo problema, era
evidente.
Osservò
la ragazza. Poteva avere trent'anni. Ciocche disordinate intorno al
viso magro, look semplice, e sul polso un tatuaggio: una freccia in
un arco che infilzava un cuore .
“
Ma è sicura?”, continuò
riprendendo il discorso.
“
No, però ...è probabile. Se
è vero...non so come faremo,cosa capiterà sul lavoro, e allora mio
marito dovrebbe fare gli straordinari, ma dopo l'incidente si stanca
subito”.
“Ne
avete parlato?”
“No,
aspetto. Aspetto”. Tacque.
La
guardò meglio. Dietro il look casual si intuivano alcune
accuratezze: la sciarpa e gli stivali coordinati con la borsa, un
anello originale all'indice. E aveva qualcosa di dolce e determinato
insieme, nella linea del profilo e del mento. Era bella.
Forse
aveva sognato per sé una vita migliore, un lavoro gratificante, una
carriera, un modo per mettere a frutto le sue potenzialità. E un
marito meno distratto.
Come
se le avesse letto nel pensiero, disse:
“Mi
sarebbe piaciuto studiare, andare all'università, diventare
architetto. Ma i miei si sono separati, ho cominciato a lavorare
presto, son accadute tante cose...”.
Si
alzò. “Devo andare”, disse mettendo il figlio addormentato nel
passeggino, la borsa a tracolla e afferrando il guinzaglio. “Devo
andare, comincia a far fresco per il bambino”. Si salutarono.
Dopo
alcuni passi, già avviata nel suo percorso, si fermò voltandosi:
“Grazie”, disse.
Grazie!
Colpita, scalfita da quella parola si sentì per un attimo
destabilizzata. In fretta riprese la strada di casa, voltando le
spalle al tramonto ormai avvenuto. Non aveva fatto niente per
meritare quel “grazie”, aveva detto pochissime parole. Ed ora
aveva un nodo in gola, un rimescolìo dentro, per così poco! L'aveva
solamente ascoltata.
Di
nuovo si affacciò al torrente, come faceva sempre prima di
rientrare. Presto sarebbe stato buio. L'acqua scorreva senza
riflessi, solo il rumore uniforme, immutabile sulle pietre scure.
Su
di lei tanta ne era già passata: quanta,e quale, sarebbe passata
sulla giovane donna? Sentì di amarla come una figlia, una figlia
sconosciuta che non avrebbe visto mai più.
Salendo
le scale, pensò che le persone sono come acqua di torrente: hanno
una voce, e bisogna ascoltarla. Nient'altro.
Giovanna
de Luca
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