IL
POMERIGGIO
(racconto)
Sollevò
la tenda per vedere se avesse cominciato a nevicare: il cielo era
grigio, compatto, ma non c'era segno di neve sulla strada. In
lontananza vedeva le illuminazioni natalizie già accese nel primo
pomeriggio. Infilò il cappotto, calzò il cappello e tornò, dal
pianerottolo, a prendere il bastone. Non ne aveva una necessità
assoluta, ma gli dava sicurezza, era bello e se capitava, mentre era
fermo con qualcuno, lo faceva un po' roteare parlando.
All'ingresso
incrociò la signora X, vedova, condomina e probabilmente sua
coetanea: detestava un certo tipo di donna anziana, troppo pronta
alla familiarità, logorroica e pettegola. Due parole e via, fuori.
Ecco
qui, pensò con un impercettibile moto di gioia, mi godrò un po' la
città prenatalizia, senza che la neve mi chiuda in casa.
Il
primo incontro fu uno scontro: due adolescenti, gaiamente
starnazzando sui rispettivi smartphone, correndo gli andarono addosso
e quasi gli strapparono il bastone. Irritato borbottò qualcosa,
mentre si raddrizzava il cappello che pure aveva risentito dell'urto.
Niente
più educazione. Guardare chi ti viene incontro. Guardare dove si
mettono i piedi. Stare attento. A tutto.
Esistono
per fortuna spazi più grandi dove camminare, pensò mentre usciva
dai portici e si metteva nel mezzo del Corso.
L'ora
del primo pomeriggio non lo rendeva ancora affollato, cosicché
poteva godere della prospettiva delle vecchie case, ormai tutte
restaurate, della piccola piazza con il monumento e, da una parte,
della giostra che festosa turbinava le sue luci e i suoi canti.
Un
altro Natale. Un perenne Natale,poiché la ricorrenza sembrava
susseguirsi a tappe sempre più brevi, e tutte uguali.
Pure
era gradevole, ora, essere qui: le luminarie,dovunque profuse, le
vetrine, le luci...la vita.
L'omologazione
collettiva da decenni imperante, che egli aveva tanto spesso
stigmatizzato, con articoli e scritti, sembrava nascondere il suo
squallore davanti all'albero di Natale in pieno centro: noi, almeno
noi, dicevano le luci variopinte, palpitanti, siamo una diversa
dall'altra, una rossa e una blu,una verde e una gialla, ed è per
questo che l'insieme è così bello a vedersi!
Non
altrettanto l'acciottolato della strada, caspita (e gli scappò una
parolaccia mentre incespicava) cui gioverebbe il massimo
dell'omologazione... Ma non lo sanno quanto è numerosa la
popolazione anziana, che cade facilmente?
Intanto
si era portato fuori dal Corso, su una strada da poco rifatta,
pedonale,abbellita da vasi e piante. Mirava ad un certo
caffè-pasticceria di chiara fama, perché voleva una cioccolata.
Sicuro, proprio una cioccolata.
La
trasgressione. L'orrore: la glicemia, compagna del colesterolo, dei
trigliceridi... E sarebbe morto in un modo diverso, rise tra sé, con
i valori giusti, nella sua bella casa, tra i suoi libri
(troppi)...zero persone accanto? E non era meglio morire ubriaco, al
tavolo di una cucina popolare, morire di sbornia, sì, con i valori
sballati...zero persone accanto? La stessa identica cosa.
Mentre
paradossi di tal genere gli frullavano in capo,entrò nella
pasticceria e vide alzarsi da un tavolo, per uscire, una donna
giovane: un lampo, una spaccatura in mezzo al petto, un infarto
dell'anima. Per un secondo rivide lei.
Intanto
si sedette,si accomodò nel migliore dei modi, rispose al saluto
deferente e un po' untuoso di un gruppo di persone che non conosceva
(ma tutti in città conoscevano lui) e s'impose uno stop: memoria,
ferma; dolore, sepolto; vortice di vuoto, non prevarrai.
Era
accaduto trent'anni prima.
L'appuntamento,
uno degli abituali, questa volta era stato fissato in una delle più
belle località della riviera ligure di levante. Nel giorno
stabilito, il treno di lui era arrivato puntualissimo. Preparandosi a
scendere, egli aveva in anticipo aguzzato lo sguardo: sapeva che lei
era lì da due giorni e sperava di vederla dal finestrino, arrivando,
inquadrata dalla porta della piccola stazione, con quella sua
figurina elegante, anche se non slanciata, e quell'aria un po'
infantile e insieme sicura.
Non
c'era. Non significava niente. Non gli aveva detto: “ Vengo a
prenderti alla stazione”. Però egli lo aveva sperato, dopo una
separazione questa volta lunga.
La
trovò ad aspettarlo nella hall dell'albergo, allegra, affettuosa,
bellissima: con qualcosa però di indefinibile, un po' sopra le
righe.
La
mattina dopo andarono a passeggio sul lungomare e lei volle, anche se
era ormai ora di pranzo, camminare ancora avanti, fino a quando si
trovarono in un tratto ormai deserto. Allora gli infilò un braccio
sotto il suo, gli si strinse, e con la bocca quasi all'orecchio gli
disse: “ Sai, devo dirti una cosa bellissima”.
Senza
una plausibile ragione, egli sentì un brivido freddo percorrergli la
schiena. La guardò, interrogativo. “ Mi hanno offerto un posto di
lavoro in America”.
Lo
disse. Lo guardò, ed attese. Egli tacque: la vide allontanarsi, come
se danzasse raggiungere il parapetto, sporgersi sul mare gridando ai
quattro venti: “ Vado in America!vado in America!”. Poi corse a
lui, gli circondò il busto con le braccia stringendo, gli sussurrò:”
Ti vorrò sempre tanto tanto bene”.
Può
il tempo di un verbo cambiare una vita? Poiché lei aveva detto ”ti
vorrò”, non “ti voglio”. Futuro semplice. Semplice come la
situazione: un uomo di cinquant'anni ama una ragazza di trenta. Una
che lavora nel cinema, in un gruppo di sceneggiatori. È brava. Ma
non la sostengono: è giovane, è donna. Un giorno qualcuno nota il
suo talento, scommette su di lei ( sul lavoro soltanto? così lei
crede...) Le dice: “ Vieni con me in America, c'è un grande film,
un grande regista, un grande attore, è un'occasione unica...” È
lavoro. Affermazione. Carriera. Lei va. È giusto.
Alzando
gli occhi dalla tazza della cioccolata si guardò intorno: c'era una
coppia al tavolo di fronte, un gruppo di ragazzi semisdraiati sulle
sedie a destra, più in là due bambini si contendevano qualcosa.”
Cosa ci faccio qui?”, si domandò. Era quasi buio, pagò, uscì:
meccanicamente. Meccanicamente dimenticò il bastone, meccanicamente
tornò a prenderlo. La mente era altrove.
Trent'anni.
Quindi ora doveva averne sessanta. Si erano telefonati i primi anni,
si erano scritti. Lei appariva sempre raggiante, parlava di grandi
cose, di grandi eventi. Gli aveva ripetuto:” Vieni, vieni anche
tu!”. Non era come dirlo, né avrebbe potuto. E non lo voleva.
Nemmeno incontrarla. A che scopo stare insieme tre giorni, una
settimana, sapendo che poi...Nel tempo le telefonate, le lettere, si
erano diradate sempre più. Alla fine più niente.
“Ti
vorrò sempre tanto tanto bene...”.Dove? Dove gli voleva tanto
tanto bene adesso? A New York? A San Francisco? In Arkansas o in
Virginia? Non aveva forzato il rapporto mai, nemmeno agli inizi.
Figuriamoci poi.
Camminava
ora, senza osservare la strada. Arrivato a una svolta, come
risvegliato da un sogno, si guardò intorno: appena ai margini del
centro storico, la città appariva deserta. Le luci natalizie davano
un aspetto surreale alle grigie facciate. Luccicava la pavimentazione
di rosse pietre,una bicicletta malamente appoggiata a un portone
pareva desolata senza il suo ciclista. Guardò in alto: il cielo si
era liberato dalle nubi, appariva di un azzurro intenso. Non luce,
non buio. In un angolo lassù, come appesa all'orlo del tetto, si
stagliava la luna.
Riprese
il cammino. Cosa avrebbe dato, adesso, per sentire il tocco di quella
mano sulla sua!
A
casa, fatte le comuni operazioni di rientro, si sedette sulla sua
poltrona.
Ovunque,
intorno, c'erano libri. Riviste ammonticchiate, giornali, faldoni
ricoprivano tavolo, divanetti e ogni spazio piano. Il telefono
emergeva su un panchetto dagli ultimi numeri di una rivista
importante. Il computer, ormai sempre spento, nereggiava in un
angolo. Lì era ed era stata la sua vita, con tutti i suoi libri
intorno, erano suoi, erano lui. Il disordine era il suo ordine, ed in
esso si era mosso sicuro, lì voleva morire. E non avrebbe
accettato,mai più, di andare ad alcun evento che avesse come
richiamo il suo nome: lo aveva fatto mesi prima, rispondendo
all'invito di un circolo culturale in una cittadina non lontana. Dopo
che aveva parlato gli si erano affollati intorno sorrisi, persone,
penne per autografare. Dalle domande postegli, dai discorsi, aveva
capito che nessuno o quasi di quanti lo complimentavano con tanta
foga aveva letto un rigo dei suoi libri. E aveva dovuto andare a
pranzo, e si era sentito portato in giro come un fenomeno.
Accese
la televisione. Ci fu un telegiornale, i soliti terribili drammi, la
sensazione di un universale disfarsi. Percorse le tivù commerciali,
vagò per alcune minori. Stava per spegnere, quando comparve sullo
schermo un viso di giovane uomo, sorridente, accattivante: un
astrologo!. Già, a breve, una decina di giorni, l'anno sarebbe
finito, occorreva pensare al successivo. Parlava, l'astrologo,
diceva:”Per te, Bilancia...per te Scorpione...per te Ariete...”,
come se il nome del segno zodiacale fosse quello di una persona.
Quando arrivò al suo segno, gli sembrò che facesse una pausa: la
telecamera zummò sull'astrologo: forse erano i due bicchieri di
spumante che nel frattempo si era bevuti che gli stavano facendo uno
scherzo? Gli parve che il viso dell'astrologo, a misura umana, si
sporgesse, si sporgesse fuori dallo schermo e che colui, guardandolo
con aria sorniona dicesse:” E tu (fece il nome del suo segno), tu
farai un bellissimo viaggio, un bellissimo viaggio...in America!”.
“Alla
salute!”, gridò tracannando il terzo bicchiere di spumante
preparato a fianco.
Spense
il televisore. Si lasciò andare sullo schienale della poltrona:
finalmente, anche questo pomeriggio era finito.
©
Giovanna de Luca
Ogni
riferimento a possbili circostanze reali è puramente casuale
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