LA
PASSEGGIATA
Dopo
molti giorni, finalmente la pioggia era cessata. Pensò che poteva
uscire. Prese l'ombrello, se non avesse dovuto aprirlo le sarebbe
servito come bastone. Come dicevano i dottori, gli anziani devono
camminare: tutti i giorni, un poco tutti i giorni. Le vennero in
mente i suggerimenti della maestra, quando era bambina, alla chiusura
della scuola, allorché assegnava i compiti delle vacanze: “Mi
raccomando, un po' di esercizio tutti i giorni!”. Nessuna cosa
riesce bene, se non ci si allena, se non si fanno esercizi. Pensò,
aspettando l'ascensore, che anche la solitudine, per riuscire bene,
avrebbe bisogno di allenamento. Bisognerebbe che ogni tanto, mettiamo
una volta all'anno, una moglie, o un marito, ma anche un figlio
adulto, avessero l'obbligo di andarsene per un po', come fosse un
periodico servizio militare, a vivere in solitudine. Quella vera,
però, senza nessun contatto con i parenti. Senza telefonare agli
amici. Senza parlare con nessuno. Senza neanche avere un cane da
portare fuori. Un eremitaggio, insomma. Così, diventati soli per
forza e non per scelta, al momento giusto avrebbero saputo gestirsi.
Chiudendosi
il portone alle spalle, pensò che lei no, non lo sapeva fare.
Quando
le avevano portato in casa suo figlio, morto, raccolto davanti al
portone, che sembrava dormisse, in terra tutta la notte come un
ubriaco, non era stata la solitudine a occuparle la mente.
L'incredulità, la disperazione, i perché, i sensi di colpa,
l'angoscia per mesi e mesi ed anni le avevano fatto compagnia, con
quel pensiero atroce: il non aver capito, il non aver visto, l'aver
sottovalutato i rischi di un po' di depressione, solo un po' di
depressione, dicevano i dottori. Gli esami che andavano male
all'università, la ragazza che lo aveva lasciato, le prospettive di
un lavoro difficile, una certa fragilità del carattere...Come
avevano potuto queste cose finire in tante, ma tante, pastigliette
rosa, buttate giù con l'alcol? Erano così innocenti, le
pastigliette rosa: adesso che anche lei doveva prenderne qualcuna, si
era domandata, talvolta, cosa avesse pensato il suo ragazzo in quel
momento, in quell'atto di assumerle, in una stanza d'albergo, una
alla volta: aveva pensato alla mamma? a suo padre scomparso presto,
alle ragazze, agli amici? E cosa lo aveva spinto barcollante, nel
cuore della notte, verso casa, per cadere poi davanti alla porta,
esanime? Forse l'estrema volontà di salvarsi? Quali fantasmi, quali
paure del futuro, quali debolezze, forse a lei sconosciute, lo
avevano sottratto alla luce, alle giovanili risate, alle corse in
bicicletta, a tutto il bene che avrebbe potuto accadergli? Come si
può rinunciare alla vita, a vent'anni?
Eccome
se si può. Ma aveva sempre creduto che accadesse a ragazzi malati,
in situazioni particolari. Non certo al suo: bello, ben vestito e ben
tenuto, curato come meglio non si sarebbe potuto. Solo un po'
depresso, solo un po'.
Ora
camminava ai bordi della strada che portava a casa sua. Era una
periferia residenziale, dove lei e il marito molti anni prima avevano
acquistato un bell'appartamento, quando il bambino era ancora
piccolo. Adesso le costruzioni si erano assai intensificate, ma c'era
pur sempre tanto verde intorno. Ed era primavera. Oggi finalmente
splendeva il sole: non dentro di lei, dove tutte quelle domande
roteavano incessantemente.
Senza
volerlo, aveva preso la stradina a sinistra che, tra ville e
giardini, portava ad uno spiazzo erboso, affacciato sulla ferrovia.
Asfaltata nel primo tratto, diventava poi un sentiero sterrato che si
apriva sull'ampio panorama del lago. Un tempo, con il bambino
piccolo, aveva l'abitudine di venirci, nella bella stagione, anche
per far correre il cane. Camminò un poco, pentita di essere lì e
insieme attratta dal luogo, dopo tanto tempo. Lasciate le ville alle
spalle, niente appariva cambiato: la fresca erba primaverile, ancora
luccicante di pioggia, s'incagliava contro un muretto sopra la
ferrovia, costruito probabilmente a difesa e avvertimento: poi la
scarpata precipitava a picco sulle rotaie.
Si
appoggiò ad esso. In una interminabile carezza il profilo delle
colline disegnava l'orizzonte e le macchie di verde nuovo si
alternavano ai tetti dei paesi in lontananza. Spingendo lo sguardo
verso destra, si scopriva quasi per incanto il lago, seminascosto da
molte betulle, e più oltre ancora s'intuiva la catena montuosa, oggi
incappucciata. Quanto è bella la natura, pensò. Si rese conto che
da molti anni, da quando si era quasi imprigionata in casa dentro il
suo lutto, non ne aveva più cercato il contatto, come faceva da
giovane. E mentre rifletteva su ciò, le tornò in mente un episodio
che a suo tempo l'aveva enormemente turbata: si trovavano, lei e il
bambino, su quello spiazzo, con il cane che il piccolo adorava. Ad un
tratto l'animale, attirato da chissà cosa, saltando dove il muretto
era più basso, si era messo a correre velocissimo abbaiando giù per
la scarpata. Il bambino disperatamente lo chiamava e, se lei non lo
avesse trattenuto a forza, si sarebbe precipitato per fermarlo. Erano
stati momenti difficili: il cane abbaiava, suo figlio gridava e si
divincolava, un treno sarebbe potuto arrivare all'improvviso...come
difatti arrivò. Ricordava che voltandosi verso di lei e
dibattendosi, egli aveva chiesto , quasi implorato:”Perché,
perché, perché?”...
Perché.
Perché, mio Dio, mi hai abbandonato? Se lo chiedeva ora, mentre si
allontanava da lì e risaliva sulla strada principale. Quando la
raggiunse, ancora senza volere piegò a sinistra. Camminava assorta,
apparentemente senza meta. E si trovò ai piedi della chiesa.
Bisognava percorrere una breve ma erta salita per entrarvi. Quel
“perché”gridato dal bambino ed ora così forte in lei le diedero
la spinta, e salì.
Era
metà pomeriggio, la chiesa era deserta. Entrando dalla luce,
l'avvolse un'ombra fresca, lievemente profumata di fiori. Si sedette
a metà, su una panca. Non era mai stata particolarmente religiosa,
piuttosto tradizionalmente osservante, come da educazione ricevuta.
Quell'educazione che portava all'ordine, al rispetto di certe regole
di cui in fondo non si era mai chiesta le ragioni profonde. Il valore
più forte in lei era stato l'amore materno: l'amore verso “suo”
figlio. Gli occhi abituandosi alla penombra, cominciò ad osservare
le navate, le statue e i dipinti nelle cappelle laterali, il
soffitto. Da esso, tra la navata principale e l'abside, pendeva un
grande crocifisso. Un fascio di luce, come un pulviscolo, da una
finestra laterale lo investiva, e andava a illuminare il volto del
Cristo.
Quante
raffigurazioni di Cristo morto aveva visto nella sua vita?
Un'infinità, tra dipinti e sculture, famosissimi in tutto il mondo o
meno, in tante città, chiese , musei...Quella che aveva davanti non
doveva essere una grande opera d'arte, eppure aveva qualcosa che la
colpiva: era l'abbandono con cui il capo si piegava sulla spalla, la
dolcezza dell'espressione, nel declino della morte. D'istinto,
cominciò a fargli silenziose domande, dimenticando che quel Cristo
era Padre e Figlio insieme: perché non si era ribellato? perché non
aveva detto che non voleva, no, essere torturato e ucciso per
un'umanità che avrebbe sempre comunque fatto del male? a chi aveva
giovato il suo sacrificio, se la storia era stata una continua scia
di guerre e di sangue e ancora oggi appariva come un'unica mai finita
tragedia? E infine allora perché quel riscatto non aveva impedito il
suicidio di suo figlio?
Questo
era il punto. Nell'omelia, al funerale, il prete aveva detto che
nell'aldilà l'anima di suo figlio sarebbe comunque stata felice. Le
era sembrata un'assurdità, quasi un'offesa: poteva Dio consentire,
quindi volere, che un ragazzo di vent'anni si uccidesse per essere
felice “di là”, lasciando tanto dolore di qua? Dio non poteva
agire in modo così incomprensibile. C'era Dio, accanto a suo figlio,
mentre ingoiava, una alla volta, le pastigliette rosa? Guardava il
volto di Cristo, e aspettava una risposta. Pensava a sé sola , per
sé sola chiedeva il perché del male nel mondo.
Intanto
il sole si avviava al tramonto, mentre il pulviscolo rosa si
riduceva, senza scostarsi dalla croce su cui lei teneva fissi gli
occhi. Ma la risposta non venne. Come aveva creduto di poter
affrontare, lei, semplice donna ferita, il mistero della vita e della
morte, di capire le ragioni di Dio? Uscendo di chiesa, si voltò a
guardare ancora quel volto che tanto la coinvolgeva: e osservò che
nella dolcezza dell'espressione c'era pace, non resa ; accettazione,
non sconfitta. Tornando verso casa le parve di sentire la voce del
suo ragazzo, che le diceva: “ Mamma, non tormentarmi con i tuoi
tormenti, non farmi domande con le tue domande, dammi pace con la tua
pace.” E si guardò intorno, e sentì che il tramonto era tiepido,
che poteva goderne anche se non era dato comprendere il susseguirsi
delle notti e dei giorni.
Entrando
nell'atrio, incontrò la ragazza del piano di sotto, quella con le
gonne troppo corte e gli occhi troppo truccati. Non si salutavano
mai. Stasera, tenendole aperta la porta dell'ascensore, la salutò
per prima. E la ragazza rispose come se sempre l'avesse fatto, con
spontaneità, aprendosi a un largo sorriso sulle labbra rosse.
Arrivata al suo piano, uscì dall'ascensore a testa china. Le sembrò
triste. Sapeva che viveva sola. Poteva avere trent'anni. Non si
sapeva bene cosa facesse, si diceva che cambiasse spesso lavoro:
commessa, babysitter, modella...Non godeva di troppa reputazione nel
condominio, in sostanza nessuno si interessava di lei più di tanto.
Come prima non era mai successo, questo fatto le dispiacque. Di
quanti tipi può essere la solitudine? Si pensa sempre che
soprattutto i vecchi si sentano soli. Non dev'essere così, pensò
mentre si preparava un po' di cena.È brutto mangiare da soli, lo
sapeva bene, ma ci era abituata. Però, come sembrava triste la
ragazza del piano di sotto, nonostante il sorriso. Probabilmente
stava mangiando da sola anche lei. Domani, si disse , domani
l'avrebbe invitata a pranzo.
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