RAGAZZINO
Una
mattina d'autunno di molti anni fa una ragazza di ventitré anni
camminava veloce su una strada alberata della sua città.
Era
nervosa, perché andava a conoscere il preside della scuola dove
aveva avuto l'incarico di insegnare per un anno. Si era laureata tre
mesi prima, in un giorno di luminosa gioventù, che aveva liquidato
le sicurezze del passato e aperto una nuova vita. Pensava, mentre
camminava, che nessuno le aveva insegnato ad insegnare. Aveva, nel
merito, una sola certezza: la scuola doveva essere diversa da quella
che aveva conosciuto. Non sapeva cosa quel preside le avrebbe detto,
come l'avrebbe accolta. Non sapeva che impressione gli avrebbe fatto.
Non sapeva, soprattutto, che allievi avrebbe avuto.
L'incontro,
immaginato nella fantasia come un evento, fu di una squallida
normalità: niente domande, niente discorsi, bensì una veloce
informazione: “Signorina, lei avrà due classi, una prima media e
una terza. Guardi che la prima è costituita da ragazzini che
verranno quotidianamente portati qui da un istituto vicino, dove il
comune di Milano li raccoglie e mantiene avendoli sottratti a
condizioni di emarginazione, povertà e violenza. Mi capisce?...Dovrà
fare attenzione. Ecco l'orario provvisorio. Buongiorno”.
Tornando
verso casa, la ragazza esaminava la prospettiva. Intanto, a quanto
ben sapeva, a ragazzi difficili vanno dati insegnanti preparati in
modo specifico. Impossibile che non ci fossero docenti più esperti
di lei, in quella scuola. Questioni di punteggio? Probabilmente, ma
aveva senso (era serio?) assegnare una classe difficile a una
pivellina neolaureata? Che aveva fatto solo qualche supplenza a
ragazzi quasi coetanei?
Non
che la cosa la spaventasse, anzi, le piaceva la sfida. Ma la
preoccupava l'essere all'altezza, la necessità di avere, secondo
lei, conoscenze psicologiche adeguate riguardo ad un'età evolutiva
già difficile in situazioni normali, figuriamoci in quelle
“particolari”. Infine le sembrò di aver capito una cosa: davano
a lei la sezione che nessuno voleva.
E
si arrivò al primo giorno di scuola. Eccola di nuovo camminare
veloce sul viale alberato, tante volte percorso da studentessa, con
qualche patema anche, per un compito in classe od un altro: ora con
un pensiero più forte. Per prima cosa l'appello, si capisce. Poi
guardarli bene in faccia, uno per uno. E sorridere, sorridere sempre:
doveva ispirare fiducia .E se l'avessero fraintesa? Se avessero
interpretato il sorriso come debolezza e si fossero scatenati? Una
prima classe! Bambini. Ma come ci si comporta con dei bambini? A lei
piaceva parlare di Dante, Foscolo, Montale...
Intanto
era arrivata all'ingresso. Grande confusione: ragazzi, genitori,
rumori si accavallavano. Spintonando entrò, salì le scale. Una voce
dall'altoparlante scandiva i nomi, si costituivano le classi. Quando
sentì chiamare la sua prima, ebbe un tuffo al cuore. Si portò a un
angolo, sulla cima delle scale, e aspettò. Uno, due, tre...La classe
era lì: un manipolo di varie creature, al momento tranquille, certo
spaventate: cosa sarebbe accaduto, nei prossimi mesi?
Fu
allora che vide Ragazzino.
Era
davanti a tutti, era il più piccolo di tutti. Dimostrava meno degli
undici anni che avrebbe dovuto avere. Stava impalato, perduto dentro
un completo (giacca, pantaloni, cravatta) da uomo in miniatura, con
le maniche troppo lunghe per le sue corte braccia. Portava una
cartella enorme, vecchia e scucita in un angolo. Da essa non si
sarebbe separato mai, nei mesi successivi, tenendola accanto,
toccandola ogni tanto, come un bene prezioso.
Guardava
diritto davanti a sé, inespressivo. Ma quando il suo sguardo e
quello della ragazza si incrociarono, nei suoi occhi passò un moto
di impercettibile consenso. Poi tutti in aula, mentre si scioglieva
la tensione.
E
i giorni presero il loro andamento abituale: saluto, appello,
correzione compiti, lezione...
La
ragazza pian piano capì quanto inutili sarebbero state le conoscenze
teoriche della psicologia dell'età evolutiva, vide tanti mondi
diversi dinanzi a sé, ognuno con una storia certamente difficile, e
spesso chissà quanto dolorosa. Prese coscienza che, della vita,i
suoi allievi sapevano più di lei. Quindi doveva ascoltarli,
spingerli ad aprire quella porta attraverso la quale avrebbe potuto
gettare dei semi. Ma poiché erano pur sempre ragazzi, le difficoltà
non mancarono.
Fu
Ragazzino ad aiutarla.
Una
bella mattina, entrando in aula, vide che il suo banco aveva cambiato
posto: lo aveva trascinato a fianco della cattedra, sulla destra, con
la porta davanti e la finestra alle spalle, così che rimaneva come
una sorta di legame tra la cattedra e i banchi.
D'istinto
la ragazza avrebbe detto qualcosa, ma non lo fece: gli altri allievi
non davano segno di stupore, nessuno commentava o rideva. Allora fece
finta di niente, e cominciò la lezione. Più tardi rifletté: se
nessuno dei compagni aveva preso in giro Ragazzino, voleva dire che
conoscevano il suo modo di essere, e lo consideravano per lui
normale. Altre stranezze si verificarono in seguito. Per esempio
accadde più volte che, lei spiegando, Ragazzino salisse sulla pedana
della cattedra e a questa si appoggiasse come ad un balcone. Sembrava
volere le parole dell'insegnante solo per sé. Nessuno sottolineava
la cosa. La ragazza imparò che c'è un modo di capire le persone che
non si disperde in parole, ma si traduce nell'accettarle come sono: i
compagni di Ragazzino, con alle spalle esperienze di sofferenza anche
inconsapevolmente vissuta, lo accettavano com'era. Infatti non ci si
giudica tra uguali: chi patisce come altri patiscono, può solo
capire, non giudicare.
Ragazzino
era un tipo speciale. Aveva un intuito formidabile nel cogliere lo
stato d'animo della ragazza. Come lei entrava in classe, la guardava,
quasi a volersi assicurare che tutto andasse bene. E se un pensiero
, una preoccupazione o un dolore le occupavano la mente, Ragazzino
non la perdeva d'occhio: la seguiva con lo sguardo in tutti i
movimenti, la accudiva, pareva dirle: ”Tranquilla, sono qui”.
Così
il rapporto tra loro divenne speciale, una sorta di “mutuo
soccorso”. Anche Ragazzino, infatti , aveva bisogno di lei. Un
giorno arrivò a scuola tutto arruffato, come chi viene da una zuffa.
I compagni, muti. Faticosamente la ragazza appurò che qualcuno delle
sezioni “normali”, prima di entrare, lo aveva preso in giro, per
quella enorme cartella, logora e antiquata. Era il suo bene più
prezioso. Ne era seguita una scaramuccia prontamente sedata da un
insegnante. Ma Ragazzino era buio in volto, non seguiva la lezione,
continuava a mettere libri dentro e fuori dalla cartella. Così la
ragazza, mentre intratteneva i compagni spiegando, girò dietro di
lui, si appoggiò allo schienale della sua sedia come se avesse
bisogno di un sostegno e gli rimase accanto. Mentalmente gli disse :
“Tranquillo, sono qui”. Lo vide calmarsi pian piano. Nessuno dei
compagni mostrò mai di pensare a favoritismi.
Poi
venne la primavera, le finestre erano aperte ed entrava un sentore di
nuovo, di speranza e fiducia. Quanti sogni aveva in cuore la ragazza?
E quanti desideri e voglia di vivere i suoi allievi? Lei, che ragazza
non è più, si domanda cosa di voi , partiti svantaggiati, abbia
fatto la vita. Ma più spesso va con la mente a quell'ultimo giorno
di scuola., indimenticabile.
Tutti
sappiamo cosa voglia dire l'ultimo giorno di scuola, già preparato
da una lunga nullafacenza, in cui si annaspa per pescare dove non c'è
più acqua...E in quella prima non era stato diverso. Dunque nei
corridoi si respirava un'aria che sembrava dire: “Visto? Altro che
studiare!...”La ragazza sgusciava tra un corpo e l'altro verso la
sua prima, quando recepì dall'aula uno strano silenzio. Possibile?
Entrò. Ognuno se ne stava al suo posto, nessuno era seduto
sghimbescio, non c'erano gambe allungate tra un banco e l'altro, né
busti sdraiati alla meno peggio. Compostezza assoluta. La cosa più
strana era che Ragazzino stava seduto su un fianco, così che
mostrava il viso ai compagni, non all'insegnante. E, le sembrò,
nascondeva un sorriso. Lei si sedette, firmò il registro,
domandandosi cosa stesse succedendo. E all'improvviso, dall'ultimo
banco, si alzò e venne avanti, con aria forzatamente disinvolta, il
più alto, il più bello , il “vissuto” del gruppo. Arrivato
alla cattedra, posò (buttò...) su di essa qualcosa e disse: “È
per lei”.
Lucente,
nuovo fiammante, il coltellino svizzero brillava sul legno. La
ragazza alzò gli occhi per ringraziare e fu allora che ogni
disciplina andò a fondo: tutti intorno alla cattedra , vocianti,
ridenti, ognuno a mostrarle come si apriva, come si chiudeva, quante
funzioni avesse. Fecero in mezz'ora il chiasso che non avevano fatto
in nove mesi.
In
piedi sulla pedana della cattedra, Ragazzino era il ritratto della
felicità: sembrava dieci centimetri più alto, sorrideva e
controllava l'assalto .
Tutto
è passato, ormai. Tutto è cambiato . Ma la ragazza, la donna,
spesso negli anni è tornata a quel momento come a un bene prezioso,
che si tocca per verificare che è lì: come facevi tu con la tua
cartella, Ragazzino, perché dentro quella cartella c'era, senza che
tu lo comprendessi appieno, tutto il tuo futuro.
Giovanna
de Luca
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