CORE
'NGRATO
Sabato
mattina.
È
una giornata finalmente serena, la gente percorre le vie del centro
tra commissioni e gusto del passeggio, i tavolini all'aperto
cominciano ad essere occupati. C'è un'aria tranquilla, si respira
abbandono alla desiderata primavera.
Anch'io
cammino nella stradetta parallela al Corso, la mente concentrata
sulle spese che voglio fare. Ed ecco, avvicinandosi il punto in cui
tale strada sfocia sulla piazza della Basilica, ecco improvvisa mi
travolge una ventata di suono: “Catari', Catari', / pecché mme''
ddice sti pparole amare?! Pecché... “. Mi fermo perplessa, la voce
è potente, da tenore, bellissima. Lo sguardo si volge istintivamente
alla Basilica. C'è un funerale, il carro funebre aspetta .
Guardo
a destra: accovacciato, seminascosto nell'angolo dell'arco, un
artista di strada canta e suona. “Nun te scurdà ca t'aggio dato
'o core, Catari'”.
L'istinto
primo è di ribellione, un funerale e una canzone napoletana come si
accordano?
Ma
la voce pervade ogni angolo dell'arco, ne esce , si spande nell'aria.
E il testo è poesia, è rimprovero, rimpianto, angoscia, una canzone
classica delle più belle napoletane, cantata da grandi tenori. Canta
a occhi chiusi l'artista, è magrissimo, avvolto in panni scuri
indefinibili, quasi incollato all'angolo del muro. Nessuno si ferma,
pochi euro brillano nel raccoglitore, e la sua voce si alza , si
alza, tocca il soffitto dell'arco, ne esce e va, va , fino al carro
funebre. “Core, core 'ngrato...”. E intanto la bara esce dalla
chiesa e nella luce del mattino i due eventi non mi sembrano più
contraddittori, né irrispettoso il canto. Mi abbandono alla melodia,
e morte e vita si avvincono in essa: “T'hê
pigliato 'a vita mia / Tutto' è passato / E nun ce pienze cchiù”.
Ora
si è fermato qualcuno, un attimo. La canzone finisce, mi avvicino,
mi complimento con lui, gli chiedo se ha mai tentato la via della
lirica. Non mi capisce, non è italiano, forse slavo. Mi domando se
comprenda quello che canta . Noto il suo largo, mite sorriso. Per un
momento ci guardiamo, in silenzio. Gli dico: “Ancora “. Lui
annuisce, chiude gli occhi ed ecco si rialza, potente, la sua voce:
“Catari', Catari', che vène a dicere...”
© GdL
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