mercoledì 11 aprile 2018




CORE 'NGRATO

Sabato mattina.
È una giornata finalmente serena, la gente percorre le vie del centro tra commissioni e gusto del passeggio, i tavolini all'aperto cominciano ad essere occupati. C'è un'aria tranquilla, si respira abbandono alla desiderata primavera.
Anch'io cammino nella stradetta parallela al Corso, la mente concentrata sulle spese che voglio fare. Ed ecco, avvicinandosi il punto in cui tale strada sfocia sulla piazza della Basilica, ecco improvvisa mi travolge una ventata di suono: “Catari', Catari', / pecché mme'' ddice sti pparole amare?! Pecché... “. Mi fermo perplessa, la voce è potente, da tenore, bellissima. Lo sguardo si volge istintivamente alla Basilica. C'è un funerale, il carro funebre aspetta .
Guardo a destra: accovacciato, seminascosto nell'angolo dell'arco, un artista di strada canta e suona. “Nun te scurdà ca t'aggio dato 'o core, Catari'”.
L'istinto primo è di ribellione, un funerale e una canzone napoletana come si accordano?
Ma la voce pervade ogni angolo dell'arco, ne esce , si spande nell'aria. E il testo è poesia, è rimprovero, rimpianto, angoscia, una canzone classica delle più belle napoletane, cantata da grandi tenori. Canta a occhi chiusi l'artista, è magrissimo, avvolto in panni scuri indefinibili, quasi incollato all'angolo del muro. Nessuno si ferma, pochi euro brillano nel raccoglitore, e la sua voce si alza , si alza, tocca il soffitto dell'arco, ne esce e va, va , fino al carro funebre. “Core, core 'ngrato...”. E intanto la bara esce dalla chiesa e nella luce del mattino i due eventi non mi sembrano più contraddittori, né irrispettoso il canto. Mi abbandono alla melodia, e morte e vita si avvincono in essa: “T'hê pigliato 'a vita mia / Tutto' è passato / E nun ce pienze cchiù”.
Ora si è fermato qualcuno, un attimo. La canzone finisce, mi avvicino, mi complimento con lui, gli chiedo se ha mai tentato la via della lirica. Non mi capisce, non è italiano, forse slavo. Mi domando se comprenda quello che canta . Noto il suo largo, mite sorriso. Per un momento ci guardiamo, in silenzio. Gli dico: “Ancora “. Lui annuisce, chiude gli occhi ed ecco si rialza, potente, la sua voce: “Catari', Catari', che vène a dicere...”
© GdL


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