giovedì 13 ottobre 2022

 



LA SOSTA


Fu all'inizio un piccolo rumore indefinibile, subito dopo il semaforo e la curva.

Non gli fece caso, immerso nel pensiero del contratto che andava a firmare, e di quanto di vantaggioso ne sarebbe derivato. Era in ritardo, per cui accelerò: e fu allora che l'automobile diede due ,tre strattoni, e si fermò.

Subito dietro partirono strombazzamenti e parolacce, mentre tentava con insistenza frenetica di farla ripartire. Niente. Cogliendo un momento di tregua nel traffico scese , si guardò intorno. Un automobilista impietosito accostò e gli chiese:”Cosa succede?”.

Ma non lo so”, rispose nervoso, “l’ ho appena fatta revisionare, andava benissimo fino a un momento fa”.

Vediamo di accostarla meglio sulla destra, l'aiuto”.

Grazie”.

La mise in folle, lui sterzando e l'altro spingendo la sistemarono meglio.

Devo andare”, disse il soccorritore, “mi spiace, capitano sempre nei punti peggiori !”.

Rimase solo ai bordi di una strada di grande percorrenza, in entrata e uscita dalla città. Non convinto, tentò più volte di fare ripartire l'auto, inutilmente.

Porca miseria, porca miseria, e le avrebbe dato un calcio rabbioso se non l'avesse amata quanto se stesso. Bella, sognata, acquistata. E adesso traditrice.

Non rimaneva che chiamare i soccorsi. Non fu cosa rapidissima e quando finalmente poté parlare con chi sarebbe intervenuto realizzò che prima di un'oretta non sarebbe arrivato nessuno.

Porca e porca miseria. Doveva chiamare chi lo attendeva. Lo fece, modulando la voce tra l'indifferente e lo scherzoso, così che pensassero che si trattava di poca cosa, che si sarebbe risolta in fretta. Infatti coloro che l'attendevano, cui teneva molto, non erano gente tenera né paziente.

E adesso, nell'attesa, cosa avrebbe fatto? Si sentiva sempre più nervoso. Intorno non c'erano bar. La strada, poco più avanti, apriva sulla destra una discesa poco invitante, che sembrava portare in campagna.

Seccato se ne stette un po' appoggiato al muro della casa retrostante. Si guardò intorno: automobili, solo automobili che sfrecciavano davanti a lui. Dall'altra parte della strada alcuni negozi, o meglio empori di vario genere, dall'aspetto trascurato e caotico: televisori, computer, accessori di diversa natura, come spesso accade nelle periferie cittadine.

Non sapendo cosa fare, mentre il pensiero andava a chi lo stava aspettando, alzò gli occhi. E lo vide: imponente, di colore marrone, un grande edificio si ergeva davanti a lui.

La prima reazione fu di fastidio. Quanto diverse le villette a schiera con giardino, i condomini signorili, le dimore luminose e moderne cui era abituato!

Tuttavia qualcosa lo spingeva a osservare quel corpo massiccio e squadrato. Non riusciva,suo malgrado, a staccarne gli occhi. Così vide sulla facciata un arco, e un altro, e un altro ancora, che quasi corona seguivano le linee della parte superiore.

Osservò meglio: sotto gli archi si aprivano finestre, diroccate e confondibili con la muratura. E la facciata vide non essere levigata e uniforme, ma scrostata, bucata, come un abito vecchio.

Si sentì colpito. Alto,al di là di un folto ed incolto muro di piante, si ergeva un gigante solitario.

Non era mai stato un cultore di storie antiche, né un appassionato d'arte. Studi scientifici, interesse per la tecnologia, attitudine agli affari: e un affare lo portava quel pomeriggio alla firma del contratto da cui sarebbero derivati nuovo prestigio e altro denaro. Il resto, l'arte, la poesia, la storia gli apparivano cose da professori.Una volta aveva anche detto che chi se ne occupava “aveva del tempo da perdere”.Ora quella costruzione severa, decaduta, gli stava davanti come un fastidio.

Volle pensare ad altro. Ma l'altro era il problema che si poneva per essere così in ritardo all'appuntamento, e la preoccupazione che l'affare sfumasse.

Tornò a guardare l'edificio. Un castello, certo doveva essere stato un castello . Notò che di fronte,alla sua altezza, si apriva un pertugio, con un cancello arrugginito e in parte divelto. Al di là, erbacce e ferraglia sembravano impedire l'ingresso.

Spinto da un’ irresistibile curiosità, attraversò la strada. Il cancello resisteva, la ruggine era in ogni sua parte. Spinse con forza, finché esso cedette. Gli si aprì dinanzi qualcosa che doveva essere stata una scala, ora un ammasso di erbacce tra cui si indovinavano a stento i gradini.

Pensò che gli conveniva tornare indietro e salvare le scarpe e i pantaloni firmati. Invece proseguì, dandosi del cretino. Tra rabbia con se stesso e vari inciampi, arrivò alla fine dei gradini: un vasto spiazzo ghiaioso conduceva ad un varco, una porta senza battenti. Al di là il buio.

Che fare? Aveva compreso che si trattava di una dimora secolare, abbandonata da chissà quanto.

Ma ormai era lì...e oltrepassò la soglia.

Ci volle un poco prima che vedesse un corridoio lungo, dalle pareti scalcinate, sul cui lato destro si apriva un passaggio. E si trovò in uno stanzone dove da una apertura alta su una parete entrava una luce fioca, ma sufficiente a far capire che quella doveva essere stata una cucina.
Uscì, fece qualche passo proseguendo . Ed ecco una nuova scala.Un ampio passaggio la mostrava sconnessa ma evidentemente padronale . Capì che stava avviandosi al “piano nobile”, ricordò qualche rara visita ad antiche dimore.

Così passò da una stanza all’altra , tra muri scrostati e calcinacci, tra tende polverose e lacere, tra sedie imbottite rovesciate, tra camini desolati e residui dipinti alle pareti. Tutto era distruzione, abbandono, vetri rotti alle finestre. Pensò alle molteplici presenze che in quelle stanze dovevano essere passate. In quanti secoli? Fino ad essere rifugio per ogni fuggiasco o , anche, tossicodipendente, come suggeriva una siringa in un angolo. Ogni tanto un fruscìo o un misterioso rumore rompevano il silenzio, qua e là una lama di luce entrava dalle finestre senza vetri.

Ebbe paura. Non una paura fisica, ma interiore: così finiscono le cose? Quei muri avevano visto persone amarsi ed odiarsi, tra quelle pareti si erano intrecciate vicende e voci come la sua, erano stati fatti progetti di vita come i suoi, e bambini come i suoi avevano pianto e giocato. Di lì era passata la storia, da un giorno all’altro , da un secolo all’altro, la storia di uomini sempre diversi e sempre uguali.

Volle proseguire. Davanti a lui un’apertura più ampia di una porta emanava luce. Fece qualche passo. Entrò.

Come aveva potuto conservarsi quella sala in una simile decadenza? Sulle pareti aggraziati intrecci di fiori , multicolori geometrie, armoniose figure umane parevano appena dipinti.

Sentì il bisogno di raccogliere i pensieri. Vide un sedile di pietra, vi si sedette. Guardò in alto:al centro del soffitto a volta, racchiuso in un dipinto tondo di nuvole, lo guardava un viso femminile di indescrivibile bellezza. Gli occhi erano su di lui, il sorriso era rivolto a lui. Quale artista era riuscito a sublimare a tal punto la bellezza umana da renderla compimento di ogni desiderio e insieme irraggiungibile? Stette a lungo in quella contemplazione, mentre dentro di lui si combattevano la consapevolezza che tutto si corrompe e muore, eppur si aspira a un’eterna bellezza.

Si era fatto tardi. Tornò sui suoi passi, portandosi una domanda cui non sapeva dare risposta.

Trovò due meccanici ad aspettarlo, che videro increduli uscire dal rugginoso cancello un giovane uomo elegante, ma tutto stropicciato e polveroso. Salito in auto, il telefono squillò. Una voce seccatissima quasi gli gridò che gli appuntamenti di affari si rispettano, pena la decadenza del contratto.

Egli non rispose. Mise in moto, e si avviò verso casa.

Giovanna de Luca

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